The Town of Light - Recensione

PC PS4 Xbox One

Non appena ho finito The Town of Light il mio istinto era quello di correre in bagno e vomitare. Sono riuscito a controllarmi. Mi sono lasciato una serata e una nottata intera per riflettere, eppure se ripenso alla mia esperienza nella testa di Renée sono ancora sconvolto. Da questo punto di vista, il titolo di Lka.it è probabilmente uno dei videogiochi più coraggiosi mai sviluppati, nonché uno di quelli dall’impatto emotivo più devastante. Già solo per questo, e per sottolineare l’importanza che progetti del genere hanno per il valore culturale del medium, The Town of Light è un successo e costituisce un importante traguardo per l’intero settore, specialmente perché sviluppato in Italia. Al di là dell’orgoglio patriottico, The Town of Light ha il pregio di raschiare a fondo su una pagina di storia italiana molto complicata, ovvero quella dei centri di igiene mentale prima della legge Basaglia, e raccontarla attraverso un videogioco, riuscendo a ridurre al minimo quell’ontologica e inevitabile distanza che il medium ha con la realtà.

DALLA RICOSTRUZIONE FISICA AL DOLORE REALE

Il fulcro di The Town of Light è sicuramente l’opera storiografica alle sue spalle e la sua bibliografia, che hanno permesso al team di Lka.it, durante i tre intensissimi anni di sviluppo, di ricostruire in maniera fedelissima ciò che resta del manicomio di Volterra, uno dei più grandi d’Europa. Il fascino sinistro del casolare, il suono dei nostri passi, il vedere sulle mura le firme e le visioni pittoresche di chi in quella casa ci ha vissuto, sofferto e perso tutto basta a togliere il fiato, ma la vicenda raccontata in The Town of Light ci dà un assaggio di come funzionavano le cose lì, come in qualsiasi altro manicomio.

La storia di Renée T., una ragazzina di 16 anni la cui colpa principale era non comprendere la sua natura e il non riuscire a trovare il suo posto nel mondo, rappresenta il dramma di tante altre persone. Il nostro viaggio, che ha il pregio di durare il giusto per non sfociare nel “troppo” disturbante, ci porta nella soggettiva della ragazza, in una sorta di ricordo a posteriori. Ovviamente, la ricostruzione della vicenda è un labirinto di visioni filtrate dalla soggettività e dalla sensibilità di una persona che vedeva e sentiva le cose in una maniera particolare, per cui lungo l’intera avventura siamo costantemente alle prese con un gioco di piani e prospettive che trasforma il manicomio di Volterra in un labirinto dell’anima, straziato dal dolore e incongruente con le regole della vita reale imposte in quell’edificio tra il 1938 e il 1945.

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Una storia di privazioni, ignoranza, risentimento e dolore

Il mood tetro e cupo della vicenda, sottolineato da una colonna sonora delicatamente inquietante e un voice over che riesce a comunicare l’estrema vacuità dell’anima di Renée alla fine della sua degenza, riesce a lacerare da subito qualunque difesa del giocatore e l’empatia per la ragazza si trasforma ben presto in un fastidio crescente, misto a curiosità morbosa, man mano che scopriamo la sua vicenda. Una storia di privazioni, ignoranza, risentimento e dolore; una storia in cui tutto viene ribaltato e la luce diventa terrore, il buio consolazione, in cui il meraviglioso bucolico contesto di Volterra, che durante la vicenda è sempre illuminato da un sole che tuttavia non riesce a scaldarci, diventa il teatro luminoso di quella crudele verità che per anni abbiamo insabbiato proprio sotto la stessa luce. Ed è in quel momento che il dolore di Renée diventa il nostro reale dolore.

IL RUMORE DEI PASSI, LE VOCI NELLA TESTA

In termini prettamente ludici, The The Town of Light è un’avventura interattiva, molto vicina al concetto di “walking simulator”, dove l’esperienza è focalizzata sulla narrazione e sulla percezione della vicenda, in un continuo gioco tra esplorazione e flashback. Il ritmo è compassato, ovviamente calibrato ad arte per rendere significativo ogni passaggio tra quelle dannatissime mura. Da questo punto di vista, la fase esplorativa, ambientata nel presente, è gestita in maniera ottima, merito della già citata opera di ricostruzione maniacale, bella da vedere ed efficace dal punto di vista della messa in scena. Certo, data la soggettività dell’avventura manca un po’ di interazione con l’ambiente, limitato a pochi oggetti, per lo più importanti dal punto di vista narrativo, ma si tratta di una scelta dettata dal trasformare la “visita” al manicomio in qualcosa di molto diverso, che assume senso in alcune sequenze in cui la percezione dei luoghi reali è visibilmente alterata.

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I contrasti tra la delicata intelligenza di Renée e la crudezza di alcuni passaggi rappresentano uno dei punti forti del gioco

Il punto debole del gioco, a mio avviso, è quando dal presente, reale o percepito che sia, il focus si sposta al passato, attraverso visioni e flashback: funzionano bene le illustrazioni, meno le sequenze in 3D, molto distanti in termini di qualità estetica dalla ricostruzione ambientale, con dei modelli degli esseri umani che non riescono a tenere sospesa la nostra incredulità. Paradossalmente, proprio nel momento in cui dovremmo “entrare” di più nella vicenda ne siamo un attimo straniati. Certo, il rapporto empatico con Renèe regge, perché tutto il contesto è costruito ad arte, e il rapporto tra l’eco dei nostri passi durante l’esplorazione e la sua voce costituisce una granitica garanzia di coinvolgimento, ma, nel complesso, la forza della vicenda emerge più dai dettagli di quello che ci circonda, dal rapporto tra giocatore e protagonista, dall’esperienza stessa del vagare nel manicomio che non dalla narrazione in sé, che presta il fianco anche in alcuni momenti dove, piuttosto che alle sequenze, si affida al racconto attraverso espedienti esterni, come cartelle cliniche e lettere. Anche in questo caso il coinvolgimento è forte per via del contenuto, ma non per la forma. In altri casi, invece, la forma diventa brutale, cruda e sbatte in faccia senza complimenti una situazione oltre il limite del disumano, dove l’inconsapevolezza e l’ignoranza distruggevano ogni briciolo di umanità. A volte la drammaticità e la vividezza del racconto sfiora i limiti dell’eccessivo, ma a mente fredda mi accorgo che i continui contrasti tra la delicata intelligenza di Renée e la crudezza di alcuni passaggi probabilmente rappresentano uno dei punti forti di The Town of Light. Allo stesso modo, a metà tra interpretazione e testimonianza, la narrazione ci investe di un ruolo a tratti poco chiaro, che punta, ancora una volta, a colpirci nel profondo, quando dobbiamo essere la coscienza di Renée e consigliarle cosa fare, in alcuni momenti decisionali che cambieranno la percezione del ricordo della ragazza. Le scelte da fare sono istintive, soffriremo per non avere assolutamente idea di come approcciare la faccenda e il senso di colpa ci investirà in ogni caso.

È questo il punto: i meccanismi decisionali di The The Town of Light non puntano a farci prendere la giusta decisione, ma mirano a farci provare le sensazioni che si provano da entrambi i lati della vicenda; la sofferenza e il senso di impotenza non solo di Renée, ma anche di chi non era pronto a gestire una situazione del genere. In questo The Town of Light, nato dalle ricerche di Luca Dalcò, riesce a non diventare un’accusa cieca, diretta e frontale, ma rappresenta una testimonianza brillante di una situazione insostenibile per tutti, dove le conoscenze mediche non erano sufficienti e dove tutto era fuori controllo, anche il concetto stesso d’aiuto. In un mondo così ribaltato, dove anche il rapporto tra luce e ombra si capovolge, la barbarie diventa tristemente normale, per cui ancora più difficile da sopportare.

The The Town of Light è un gioco difficile da digerire, emotivamente complicato da sostenere e, per questo, non lo consiglio a chi è facilmente impressionabile o particolarmente sensibile. Non ci sono mostri, non ci sono jumpscare o meccanismi fatti per spaventare, ma è l’intensità della storia e l’orrore della verità a farci tremare. Lo consiglio, però, a tutti coloro che vedono nel videogioco qualcosa in più di un semplice medium di intrattenimento: la costruzione emotiva è pressoché perfetta e in assoluto il coraggio di parlare di un tema così drammatico in maniera talmente diretta e brutale non può che dare pregio all’intera produzione. Forse, dal punto di vista prettamente narrativo, si poteva fare un po’ di più, perché in alcune occasioni la mia sospensione di incredulità è vacillata. A voler fare i pignoli, poi, tecnicamente il gioco ha punte d’eccellenza, ma anche momenti molto più incerti, e spiace solo che alcune imperfezioni di natura formale impediscano, di tanto in tanto, il fluire del racconto. In ogni caso, però, l’esperienza nel padiglione Charcot del centro di igiene mentale di Volterra è una di quelle che segnano profondamente, e non solo la vita da videogiocatore.

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Pro

  • Ricostruzione del manicomio di Volterra spettacolare
  • Emotivamente fortissimo
  • Coraggioso nel modo di raccontare

Contro

  • Sequenze nel passato molto meno forti
  • Qualche imperfezione formale che inficia la narrazione
8

Più che buono

Se serve un tuttofare il buon Mancini è l’uomo da chiamare. La nostra principessa fotografa, usa la videocamera come se fosse un’estensione naturale del corpo e monta video manco fosse in una catena di montaggio. Ah… e scrive anche. Insomma… il classico “bravo guaglione”.

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