Metal Gear Solid V: The Phantom Pain - Recensione

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Quello della saga di Metal Gear è un epilogo allo stesso tempo epico e amaro, che parte da un contesto reale – nello specifico la storia dei videogame moderni – e si riflette sui risultati ludici dell’ultimo capitolo, eccezionali per certi versi e inevitabilmente controversi sotto altri aspetti. Le vicende che hanno portato all’addio di Hideo Kojima a Konami non potranno che avere conseguenze rilevanti, per i giocatori come per il publisher: è quasi impossibile, di fatto, immaginare il futuro della serie senza il suo celeberrimo creatore, anche perché qualsiasi game designer si troverebbe in un posizione difficilissima – pericolosa per un creativo già apprezzato che non voglia mettere a rischio la sua credibilità, e addirittura proibitiva per uno sviluppatore di minore esperienza. Per queste e altre ragioni The Phantom Pain rappresenta a suo modo un evento epocale, la conclusione di un lunghissimo racconto che qualcuno sicuramente criticherà e altri, al contrario, ameranno profondamente e senza compromessi, come sempre è accaduto con i milioni di fan dell’autore. In questo caso, com’è noto, la trama torna sulla trasformazione etica e umana di Big Boss, attraverso scenari aperti e una libertà inusitata persino per Metal Gear. Venom Snake ha tantissimo da insegnare, persino nel momento dell’addio.

IL SERPENTE CAMBIA PELLE

Prima di procedere è bene contestualizzare ulteriormente l’incipit narrativo: il protagonista di Metal Gear Solid V è il “più grande guerriero del XX Secolo”, altrimenti conosciuto come Big Boss o Venom Snake, sulla cui impronta genetica sono stati costruiti diversi cloni, il primo e più famoso dei quali è il protagonista del primo Metal Gear e di altri fondamentali capitoli della saga. Solid Snake l’ha combattuto nell’iniziale ruolo di villain, in una veste che Kojima ha voluto approfondire al punto da capovolgerne il senso, da cattivo della serie a complessissimo “eroe” (le virgolette sono sempre d’obbligo, in un ambito così articolato) di Snake Eater e Peace Walker. Big Boss ne ha già viste tante, lungo avventure così complicate da non poter essere facilmente riassunte, ma almeno possiamo ricordare il drammatico finale di Ground Zeros, dove viene distrutta la base principale dell’organizzazione paramilitare da lui creata – Militaires Sans Frontières – e lui stesso viene ridotto in fin di vita dopo la distruzione dell’elicottero su cui viaggiava.

Da questo punto in avanti inizia The Phantom Pain, con Snake che si risveglia dopo nove anni di coma in un ospedale di Cipro: qui apprende di aver perso l’avambraccio sinistro, e che alcuni dei frammenti lasciatigli addosso dall’esplosione non sono inoperabili, come lo strano “corno” metallico che dona alla sua testa un profilo quasi diabolico. Ovviamente il nostro non ha nemmeno il tempo di comprendere nel dettaglio la situazione, e anzi deve subito confrontarsi con l’irruzione dei nemici e assistere, in un crescendo di brutalità, al massacro indiscriminato di medici e pazienti. Il tutto in un tripudio di visioni di oltre un’ora che fa persino dubitare sulla sanità mentale di Big Boss, a confronto – durante la fuga dall’ospedale – con mercenari e con qualcosa (o qualcuno) su cui è bene mantenere il riserbo in sede di recensione. Ed è quasi superfluo sottolineare la pazzesca qualità cinematografica della sequenza, come ulteriore e originalissimo omaggio di Kojima alla settima arte.
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METAL SANDBOX

Chi non ha seguito lo sviluppo del gioco probabilmente assocerà Metal Gear Solid V alle solite e lunghissime sequenze non interattive della saga, eccezionali nelle invenzioni di scena ma non sempre comprensibilissime sotto il profilo del racconto. In realtà, questo è vero solo in minima parte: The Phantom Pain mette grandissima enfasi sul gameplay e rivoluziona, pur senza snaturarli, alcuni dei concetti su cui la serie si è basata fino a oggi, prima di tutto in termini di pura fruizione. Innanzitutto, il quinto capitolo di Metal Gear Solid adatta le consuetudini della saga a uno scenario aperto, spiccatamente sandbox, smisurato come dimensione e difficilmente riconoscibile in termini di confini dell’area di gioco. Per la precisione abbiamo a che fare con due location principali, una collocata in Afghanistan, a nord di Kabul, l’altra in un meno definito territorio africano al confine fra Angola e Zaire: la prima è visitabile immediatamente, dopo la scena dell’ospedale, mentre la seconda viene sbloccata dopo un evento che, per un mare di buoni motivi, mi guardo bene dal descrivervi.
Sia come sia, è bene tracciare delle linee ben definite tra quelli che sono gli open world più noti, principalmente in ambito ARPG, e il peculiare modello creato per Metal Gear Solid V, al di là dei tratti comuni sulla libertà di movimento e sulla possibilità di approcciare liberamente gli obiettivi.

Nell’ultimo rampollo di Kojima abbiamo infatti un terzo scenario, attraverso il quale dovremo passare più volte, alla stregua di un HUB d’azione: in termini di background, la nuova Mother Base è collocata nell’Oceano Indiano, in un braccio di mare prossimo alle isole Seychelles, ed è stata creata dal compagno e amico Kazuhira Miller per far crescere e addestrare un nuovo gruppo di soldati, i Diamond Dogs, in attesa del risveglio di Big Boss (di fatto, quasi un “atto di fede”). La soluzione non è del tutto nuova per Metal Gear Solid, in riferimento a Peace Walker, ma le differenze sono tali da meritare il giusto approfondimento: gli aspetti gestionali sono importantissimi, sempre che il giocatore non voglia finire il gioco con lo scarso equipaggiamento iniziale e non servirsi, dunque, delle tante primizie che il nuovo sistema è in grado di fornire – e che possono, se ben sfruttate, aiutare l’utente a raggiungere il massimo punteggio (nemici uccisi o tramortiti, grado di silenziosità, allarmi e via dicendo) durante le missioni. È possibile espandere Mother Base creando reparti variamente specializzati, dalla medicina alla ricerca tecnologica, dal supporto sul campo alle misure di sicurezza: ognuna di queste unità, sette in totale, potrà essere sviluppata investendo i soldi e le risorse che avremo cura di recuperare nelle missioni, laddove i compiti secondari consentono di accumulare la “moneta” GMP, mentre le materie prime andranno sottratte ai nemici in vari modi, magari facendo “volare via” interi container…

DONI AEROSTATICI

Il creatore di Metal Gear Solid non si è mai preoccupato del fattore verosimiglianza, ed è facile che i palloni aerostatici di The Phantom Pain – con i quali prelevare nemici tramortiti, merci e addirittura veicoli – vincano il premio di “miglior cazzeggio videoludico” degli ultimi lustri. Una cosa fuori di testa, insomma, che tuttavia rappresenta una delle componenti base del gioco e, per tanto, è bene che attiri a sé gli investimenti del giocatore, così da potenziare il più possibile le capacità di carico.

Metal Gear Solid V cerca di allontanarsi il più possibile dall’immagine più stereotipata degli stealth lineari

Una volta sbloccati i necessari upgrade del sistema – chiamato Fulton – possiamo far schizzare verso il cielo non solo i soldati, come abilità di default, ma anche veicoli da trasporto, postazioni fisse, tank e qualsiasi altro elemento che possa tornar comodo nella base. In questo senso, va detto che i militari “rapiti” presentano capacità diverse fra loro, e che quelli dotati di migliori statistiche sapranno dare un contributo maggiore e, dunque, incrementare l’efficienza delle unità di cui fanno parte. Il sistema va avanti in automatico, e a un certo punto potremo lanciare le nostre truppe in specifiche missioni “esterne”, dove guadagnare compensi di vario genere sulla base dell’esito del combattimenti. E questo è quanto: da qualunque angolazione lo si guardi, Metal Gear Solid V cerca di allontanarsi il più possibile dall’immagine più stereotipata degli stealth lineari, offrendo un’esperienza a 360 gradi, che coinvolge aspetti strategici e gestionali insieme a una vastissima gamma di possibilità d’azione, curata fin nei dettagli a prescindere che si proceda silenziosi o, al contrario, si facciano cantare le armi al primo sospetto. Ciò detto, il fulcro del gioco rimane sempre l’infiltrazione stealth, che premia di più il giocatore sia in termini di mero punteggio, sia nell’incommensurabile godibilità di questa componente del gameplay.
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ODISSEA STEALTH

La quantità di gioco offerta da The Phantom Pain è davvero impressionante, con ben cinquanta missioni principali e addirittura il triplo per quelle secondarie. Ciò non può che giovare al rapporto qualità/prezzo, naturalmente, visti anche i pregi appena descritti, ma è altresì vero che alcuni potrebbero persino venir scoraggiati davanti a un simile oceano di contenuti, soprattutto se si sono avvicinati da poco alla serie, magari su PC, e recepiscono quindi in misura minore il carisma di Big Boss e del background di Metal Gears Solid. Almeno, però, posso rassicurare tutti sulla varietà dell’esperienza, che lascia nelle mani del giocatore qualsiasi scelta operativa: ogni missione ha una sua struttura ben definita ma rimane comunque aperta all’interpretazione del giocatore, per essere affrontata con le armi e le attrezzature scelte prima della missione ma anche, alla bisogna, con l’equipaggiamento paracadutato da Mother Base, munizioni comprese. Un’impostazione sandbox immacolata, insomma, alla quale vengono affiancate intelligenze artificiali particolarmente complesse per i nemici e tanti altri dettagli sempre più complessi e sfaccettati: se, ad esempio, la vostra specialità sono gli headshot, presto vedrete sempre più soldati con l’elmetto protettivo, oppure con scudi e placche se abuserete di mitra, fucili e, in generale, con l’uso della forza bruta. Gli allarmi scattano con grande facilità ed è bene mantenere il sangue freddo in ogni situazione, dal momento che la pura sopravvivenza – con la capacità di non morire mai per l’intero livello – viene ripagata al pari di altri fattori (non dimenticate mai le leggendarie scatole di cartone, utilissime anche in Metal Gear Solid V). Ovviamente, più ci impegneremo nel gioco, come risultati ma anche come gestione delle nostre forze, e più sarà vasto il campionario di prelibatezze a disposizione nelle fasi avanzate, comprendenti il bombardamento aereo di una certa zona o lo spargimento del più “gentile” gas soporifero.
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FALLEN STARS

Nelle intenzioni di Kojima, The Phantom Pain doveva accompagnare le mille sfaccettature di Big Boss verso la completa transizione, chiudendo il cerchio tra una sorta di fascinoso anti-eroe e un vero e proprio “cattivo” da livello finale, in una battaglia senza esclusione di colpi con Cipher e Skull Face. Tutto questo è vero grossomodo fino alla metà del gioco, difficilmente meno di 30 ore effettive, ma prende una piega bizzarra nella parte conclusiva, tanto da mettere in pericolo la stessa tenuta narrativa del gioco: da un lato, nessuno si aspettava qualcosa di diverso da un nuovo ingarbugliatissimo intreccio, faticoso da seguire ma superbo nel crescendo drammatico; dall’altro, il racconto di The Phantom Pain non solo appare improbabile, ma diventa inutilmente affaticato non appena ci rendiamo conto che alcuni personaggi hanno un ruolo quasi del tutto ininfluente, per quanto presentati con un’enfasi finanche esagerata. Per l’epilogo si può addirittura parlare di stillicidio, con un lunghissimo spezzatino di missioni secondarie che improvvisamente diventano di primaria importanza.

Francamente non ricordo combattimenti così scialbi come quelli di The Phantom Pain

La prima cosa che viene in mente, di fronte a simili debolezze, è la lunga e difficile fase di sviluppo del gioco, insieme alla possibilità che il percorso creativo sia stato bloccato prima di concludersi, nel tentativo di parare un eventuale fallimento commerciale che, fra l’altro, si è rivelato tutto il contrario. Le titubanze si specchiano perfettamente negli scontri con i boss, da sempre un punto di forza della serie ma qui malamente realizzati: francamente non ricordo combattimenti così scialbi come quelli di The Phantom Pain, dove l’impegno richiesto è legato esclusivamente al numero e alla resistenza dei nemici, e non c’è alcuna traccia della fantasia e dell’inventiva – anche tecnica – che accompagnava i boss-fight del passato. A me sono più volte venuti in mente Psycho Mantis e Sniper Wolf, dal primo MGS, oppure tutta la Cobra Unit del terzo capitolo, momenti che hanno segnato la storia del game design e dei quali, per essere chiari, non è sopravvissuta nemmeno la più piccola suggestione. Un grande ed enorme peccato, per alcuni imperdonabile, dal momento che Metal Gear Solid V mette sul piatto una marea di riuscitissime meccaniche, e non riesce a onorarle proprio in uno dei territori più congeniali all’autore. E il sapore in bocca diventa ancora più amaro, quando non si hanno riferimenti certi per il futuro. La saga di Metal Gear Solid è davvero finita? Beh, forse no, ma è terminato il ciclo più importante della sua incredibile storia.

L’ultimo Metal Gear Solid di Hideo Kojima è uno dei titoli più vasti e articolati che mi sia capitato di recensire negli gli ultimi anni, e forse anche in generale. Il gameplay è ancora più complesso e sofisticato di quanto potessi aspettarmi, al punto che c’è quasi da rassicurare i meno volonterosi sulla grande varietà dell’azione, a fronte di una massa di contenuti capaci di intimorire più di un giocatore. Chi saprà farsi conquistare da Snake – o si è fatto già conquistare da anni – avrà per le mani un’esperienza pazzesca, capace di insegnare a tanti colleghi la vera libertà d’azione, e comunque non potrà evitare le vistose debolezze delle fasi avanzate, per i controversi boss fight e, ancor di più, per l’isterica conclusione della trama. Ciononostante il voto è quello che vedete qui sotto, pienamente guadagnato malgrado le incertezze: pensate a che sarebbe successo, rimanendo saldi in sella per l’intera durata del gioco…

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Pro

  • Un sandbox d'insegnamento per tanti altri.
  • Colossale numero di missioni.
  • Componente gestional-strategica utile e ben fatta.

Contro

  • La trama si “rompe” nella seconda parte.
  • Boss ben inferiori al livello della serie.
9

Ottimo

Sta lì, sornione e silenzioso alla scrivania, come se non esistesse. E invece esiste eccome, il TMB redazionale, grazie al quale ogni newser la mattina si alza sapendo che deve correre più veloce di lui, se vuole mangiare. Attenzione, però, a non lasciarlo da solo con un mojito, perché potrebbe finire tutto a schifio in un amen.

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