La nobile arte di giocare a qualcos'altro – L'Opinione

Facce da TGM – L’Opinione è lo spazio dedicato alle “columns” di The Games Machine: articoli e visioni su argomenti caldi o fortemente dibattuti che animano le discussioni, anche molto dure, all’interno della redazione di TGM, talvolta con posizioni – davvero o solo in apparenza – antitetiche. L’obiettivo è dar voce ai nostri redattori come specchio del quadro complesso e articolato, talvolta persino controverso, che circonda il mondo dei videogiochi, all’interno di confini dettati da etica e buon gusto ma senza depotenziare il messaggio e, così, la ricerca di confronto su temi sensibili e delicati. Buona lettura!

Giocare e guardare un film potrebbe essere alquanto comune. Chi ha visto il film Open Water? Basato sulla storia vera della tragica scomparsa di Tom e Eileen Lonergan, parla di una coppia in crisi che per ritrovare l’intesa perduta decide di concedersi una vacanza all’insegna delle immersioni, grande passione di entrambi. Per una strana serie di sfortunate coincidenze, durante un’escursione in barca i due vengono dimenticati in mezzo all’oceano, abbandonati al loro destino. Le vie del Signore, sebbene infinite, in questo caso conducono dritte verso le fauci di famelici pescecani, e poi arrivano i titoli di coda a sigillare un finale chiusissimo. La vicenda è abbastanza romanzata, ma è stata per me spunto di riflessione. Cosa sarebbe successo se invece di tentare di ricucire il rapporto si fossero mandati allegramente a quel paese? Niente viaggio, niente gitarella, niente spuntino proteico per gli squali. Potrebbero essere ancora vivi. Voler a tutti i costi riprovarci è costato loro la vita.




E, riflessione nella riflessione, anche se non fosse finita in maniera così tragica, chi ci assicura che avrebbero superato la crisi? Questo non vuole certo essere un incoraggiamento a lasciarsi alla prima difficoltà – sentite un avvocato se siete sposati, in ogni caso – però è innegabile che alcune relazioni nascano sotto un cattivo segno o finiscano per divorare inutilmente il prezioso tempo che ci è concesso in questa vita. E non mi riferisco semplicemente a questioni sentimentali, anzi dato che siamo su TGM sto per agganciarmi ai videogiochi. Ci sono persone che vivono un rapporto tossico con i videogame, e le immagino virtualmente disperse nell’oceano, incapaci di tornare a riva, intrappolate in una situazione creata con le loro stesse mani. Proprio come gli esseri umani, i viggì non sono entità astratte plasmabili a nostro piacimento, ma creature complesse con determinate caratteristiche che per alcuni sono pregi, per altri rappresenteranno difetti. Eppure esistono persone che pretendono di veder adattato il gameplay, o la grafica, o qualsiasi cosa passi loro per la mente, secondo i propri gusti individuali. Lies of P?

Giocare ACCESSIBILITÀ

Rendetelo più facile. Return to Monkey Island? Usate la pixel art. Joel Miller? Non deve morire, come Misery. E mentre si dannano l’anima sprecando energie, chissà quante anime gemelle videoludiche scorrono davanti ai loro occhi, passando inosservate o al massimo finendo salvate nella wishlist, termine politically correct per definire quell’insieme di giochi che se non mi spammate in dieci che sono scesi a novantanove centesimi manco li guardo, e se li compro manco li installo, tanto per un euro chissenefrega.

IL RACING GAME IN CUI NEMMENO HO GUIDATO

Doverosa a questo punto una mia ammissione, perché sono un peccatore nonostante mi appresti a scagliar pietre. Sono una schiappa colossale ai racing game. Qualsiasi titolo più complesso di Super Sprint è per me ingiocabile. Calibrare sospensioni, pressione degli pneumatici e altri parametri di questo tipo mi è impossibile. Ci ho provato un sacco di volte, tutte con esisti pessimi, affrontando ogni circuito disordinatamente, mentre gli avversari sparivano all’orizzonte. A un certo punto ho anche iniziato a mettere i settaggi automatici. E delegare le marce all’AI. E disattivare i danni. E pure ad abilitare la traccia che mi avrebbe mostrato la traiettoria ideale da seguire. Il tutto, alla difficoltà minima, mi ha consentito di effettuare qualche timido sorpasso. Ma stavo ancora giocando a un racing game?

Giocare

No. Ero su una specie di trenino panoramico dei parchi tematici, che andava da solo, mancava solo un infante sudato al mio fianco che mi sporcasse con il suo maledetto cono di zucchero filato. Alla fine ha vinto la noia, ma quanto tempo ho sprecato incaponendomi a voler a tutti i costi guidare? Oddio, “guidare”, avvocato, direbbe il famoso meme. Sono stato anche io abbandonato in mare aperto sprecando ore preziose che avrei magari potuto passare con i miei amati metrodivania o roguelite. Per colpa solo e unicamente mia? No, signori, se quei geni di sviluppatori non avessero farcito il gioco di opzioni atte solo a snaturarne il gameplay a mo’ di specchietto per le allodole allo scopo di irretire qualche ingenuo gamer, probabilmente dopo le prime run avrei chiuso tutto. Invece ci sono cascato, ma ora la mia maturità videoludica mi consente di riconoscere quando un gioco non fa per me e passare allegramente oltre, senza provare ostinatamente a perdermi all’interno dei menù di configurazione sperando di ottenere un qualche surrogato dell’esperienza originale, barattando grande quantità di tempo con poco divertimento.

TROPPO DIFFICILE? TROPPO FACILE? TROPPO QUALSIASICOSA? A COSA VOGLIO GIOCARE? DISINSTALLIAMOLO!

Eppure in molte recensioni degli utenti, su Steam o sui gruppi dedicati al Current Big Game, proliferano i consigli su come stravolgere ogni meccanica per camminare spediti verso la schermata di congratulazioni. Ad esempio se togli la permadeath, aumenti il loot, abbassi l’AI dei mostri e giochi al tramonto ma non del tutto a sera, alla fine Rogue Kattivo riesci a finirlo. Mi sembrano quelli che vanno in vacanza in luoghi improbabili raccontandoti che se stai attento a quello che mangi, giri come uno straccione, non incroci mai lo sguardo degli autoctoni e partecipi con trasporto alla Danza della Coprofagia al plenilunio, alla fine è un posto tranquillo. Grazie dei consigli, ma se questa è una vacanza, resto a casa mia, e quello è un roguelike piuttosto mi sparo un platformer come si deve, con i miei bei salti pixel perfect che tanto mi piacciono.

Giocare

Dunque, la prossima volta che troviamo qualche videogame troppo difficile, troppo facile, o troppo biondo, come diceva Ricky in Fight Club, disinstalliamolo e passiamo ad altro che ci soddisfi pienamente senza se e senza ma. Pensate che in redazione c’è chi non riesce a lanciare giochi horror poichè troppo sensibile. E indovinate che fa? Sbraita per avere un faro da contraerea che lo segue sui giochi della serie Amnesia? No, saggiamente non gioca ai survival horror. Che tipo eccentrico, nevvero? Smettiamola di chiedere bilanciamenti che in realtà sono stravolgimenti per puro capriccio e pigrizia nel cercare soluzioni a noi più congeniali. Non c’è nulla di cui vergognarsi a essere negati per i simulatori. O per i puzzler. O per qualsivoglia genere di gioco.

La filosofia del gameplay per tutti danneggia sia chi pretende mille modifiche non ottenendo in ogni caso l’esperienza originale, sia tutti gli altri che si ritroveranno per le mani un prodotto magari incompleto perché gli sviluppatori invece di curare la skin del boss han dovuto inserire vagonate di opzioni sperando di non scontentare nessuno. Non sto ovviamente dicendo che non dovrebbero esistere patch per bilanciare situazioni rivelatesi critiche in fase di lancio, ma bisognerebbe smetterla di prendere un videogame qualsiasi e cercare di trasformarlo nel prodotto dei propri sogni. Forse esiste già, da un’altra parte, e ce ne stiamo qui a insistere. Ve lo immaginate un comportamento del genere con il partner? Senti, non è che potresti avere gli occhi verdi? O assomigliare di più all’inarrivabile Scilla, così il Raniero Cotti Borroni che c’è me è più contento? Instasingle assicurato. E non nascondiamoci dietro l’aver pagato il gioco, forti dei cinquanta euro su duecentocinquanta milioni di budget, lo 0.00002%, con centinaia di recensioni che mettono in guardia su questa o quella caratteristica.

L’EPOCA DELL’ACCESSIBILITÀ? QUESTA? MA SE C’È SEMPRE STATA!

Una teoria abbastanza condivisa nella rete vorrebbe che tutte queste spasmodiche calibrazioni non siano ghiribizzi dei gamer ma frutto di una politica orientata all’accessibilità, per permettere ad esempio di risolvere gli adventure anche a chi non avrebbe mai immaginato che l’oggetto “chiave” si sarebbe potuto utilizzare sull’oggetto “porta chiusa”, o per garantire un minimo di sopravvivenza a chi inizia un RPG con un mago distribuendo i punti abilità sulla forza. Peggio ancora, tutto ciò viene visto come un segno dei tempi moderni, in antitesi con un presunto passato di oscurantismo videoludico in cui i poveri gamer erano abbandonati a loro stessi.

bioware casey hudson mark darrah ACCESSIBILITÀ

Non è così. I videogame sono sempre stati accessibili, ognuno nel particolare modo offerto dalla propria epoca, per giocare al meglio. Le soluzioni di Mago Merlino su Zzap! rendevano accessibili a chiunque gli adventure. Oggi si chiamano walkthrough e si trovano su YouTube, ma sono la stessa cosa. Inventatevi mille voci di configurazione del livello di sfida, e tutte mille varranno meno del peggior trainer. Per non parlare di cheat code, cartucce per dumpare la memoria e diavolerie varie. L’accessibilità è nata circa venti minuti dopo la release del primo videogame. Pensate che addirittura Moxie, nel 1983, mise in vendita – sì, in vendita! – il trainer software di Castle Wolfenstein. Ti stai annoiando con un gioco troppo difficile e vorresti annoiarti allo stesso modo, ma con un gioco troppo facile?

ACCESSIBILITÀ castle wolfenstein

Siamo il Gatto e la Volpe, ti vendiamo il trainer. Questi sviluppatori sono i miei eroi. Li immagino soccorrere disperati gamer in mare aperto, a caro prezzo, magari d’accordo con gli li aveva precedentemente lasciati al largo. Finiamola con questo accanimento videoludico, e quando un gioco non fa per noi, semplicemente lasciamolo andare. Piacerà a un altro, e noi troveremo altro.

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