Atari 2600+ – Recensione

Che sorpresona! È tornato l’Atari VCS 2600, anche se in chiave moderna. Scopriamo pregi e difetti di un diverso approccio alle mini-console.

I ragazzi degli anni Settanta e Ottanta, probabilmente, non hanno potuto godere del progresso tecnologico di quelli attuali. I telefoni avevano ancora una rotella di plastica per comporre il numero e le chiamate interurbane, se duravano più di un minuto, costavano una fucilata. Questo senza contare che solo i più fortunati avevano un televisore a colori, perché la maggior parte di noi – pischelli quando alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan – doveva accontentarsi dello schermo in bianco e nero e ritenersi fortunata, se quello schermo stava nella cameretta e non era l’unico in casa. Ma gli stessi ragazzi ebbero sicuramente un’opportunità unica, quella di assistere alla nascita di un nuovo modo di divertirsi, i videogiochi.




La storia che vi raccontiamo oggi inizia infatti nel 1975, quando l’Atari di Nolan Bushnell e Allan Alcorn mise in commercio l’adattamento casalingo di Pong, vendendone decine di migliaia di esemplari in poche settimane. Entrambi sapevano che il mondo dei giochi “da attaccare alla TV” (sostanzialmente, delle variazioni di Pong) di lì a poco sarebbe esploso, e così – a costo di vendere la società alla Warner per ottenere i fondi necessari – si misero d’impegno per realizzare un sistema basato su cartucce intercambiabili, sullo stile di quelli che Fairchild Semiconductor ed RCA erano già riusciti a portare sul mercato. Il loro obiettivo, però, era più ambizioso: volevano una console a colori sgargianti, capace di offrire giochi di una certa complessità (almeno per l’epoca) con cui far divertire tutta la famiglia.

Con l’aiuto di Jay Miner che progettò il chip video, e l’impiego di una variante più economica della CPU 6502, nel 1977 nacque l’Atari VCS, Video Computer System, ribattezzato negli anni successivi 2600: la prima console a giochi intercambiabili di grande successo, capace di totalizzare, complessivamente, più di 30 milioni di vendite e una libreria di almeno 550 titoli venduti ufficialmente su cartuccia, riuscendo a cavalcare indenne tutti gli anni ‘80 per terminare la sua corsa soltanto nel 1992, quando ormai a dominare la scena erano le macchine a 16 bit.

Insomma, chi ha giocato con l’Atari VCS/2600 neanche lo sapeva, ma stava vivendo e facendo la storia

Tante sono le leggende legate a questa storica console, per i clamorosi successi come quelli di Pac Man, Space Invaders e Pitfall!, nonché per i tonfi colossali come il tie-in di E.T. capace da solo, secondo alcuni analisti, di innescare una delle più grandi crisi mai sofferte dal settore. Insomma, chi ha giocato con l’Atari VCS/2600 neanche lo sapeva, ma stava vivendo e facendo la storia. Una storia che la stessa Atari, dopo numerosi passaggi di mano, ha deciso di rinverdire con il suo ultimo prodotto, l’Atari 2600+.

NON CHIAMATELA MINI CONSOLE

Chi vuole riscoprire i classici del passato, oggi, può farlo con decine di piccole emulation-box che, in molti casi, ripropongono anche le fattezze in miniatura delle macchine emulate: pensiamo al Super Nintendo Mini, per esempio, o al TheC64 Mini. Prodotti accomunati dal fatto di girare su schede ARM di bassa potenza, di includere una minuta libreria di giochi e di usare controller USB basati su tecnologie moderne, ma incapsulati nello stesso form-factor dei tempi andati. Atari è stata più originale: la sua nuova console 2600+ riprende sì le fattezze del venerando VCS, ma a tre quarti delle sue dimensioni e, udite udite, offre due connettori a 9 pin per i controller e un ingresso per le cartucce, in cui è possibile infilare sia quelle originali per VCS/2600, sia quelle per il successivo e più potente 7800. Una scelta che premia chi ha conservato in garage tutto il software dell’epoca e chi per tutti questi anni lo ha curato e collezionato, nella sua edizione originale, mentre chi non lo ha fatto oggi lo deve ricomprare sullo stesso supporto per poterne nuovamente fruire.

Prodotti accomunati dal fatto di girare su schede ARM di bassa potenza, di includere una minuta libreria di giochi e di usare controller USB basati su tecnologie moderne

Una scelta che prevede uno scenario piuttosto azzardato, cioè la ri-commercializzazione dei classici su cartucce multigioco e l’uscita di versioni modernizzate, o rivedute, nella speranza che le vendite siano sostenibili. Nella scatola troviamo una cartuccia con 10 giochi: Adventure, Combat, Dodge ‘Em, Haunted House, Maze Craze, Missile Command, RealSports Volleyball, Surround, Video Pinball e Yars’ Revenge, tra cui scegliere spostando quattro piccoli interruttori.

Sul retro della cartuccia troviamo l’elenco dei giochi e le posizioni degli switch per caricarli in memoria.

Una selezione che ha le sue ragioni storiche (Combat era incluso anche nel VCS originale!), ma che cozza un po’ con la decisione di offrire un solo joystick in abbinamento: almeno 3 giochi su 10 richiedono due giocatori. Non sarà difficile trovare un secondo controller con cui sopperire (ricordiamoci: possiamo usare anche quelli di tanti anni fa!), magari sarà più complicato convincere qualcuno a sfidarci. Almeno non è necessario spegnere la console per cambiare gioco, perché dentro al dispositivo non pulsa certo una CPU 6507, ma un ben più recente – e purtroppo già piuttosto demodé – Rockchip 3128 a 1.3 GHz, un SOC con quattro core A7 che ha quasi dieci anni di vita sul groppone. Prima di preoccuparci inutilmente delle sue prestazioni, ricordiamoci che deve emulare una macchina mille volte più lenta. E a differenza di quest’ultima, che aveva solo 128 byte (!) di RAM, può contare su 256 MB di memoria DDR3 e altrettanto spazio di storage su una flash card interna. Un bel salto avanti, non è vero?

LA CONSOLE DI UNA VOLTA PER CONSOLE MODERNE

Restare indifferenti al fascino dell’Atari 2600+ è davvero impossibile. È tutta plastica, ma l’effetto legno del frontalino anteriore è molto efficace, perfino al tatto. Nell’angolo inferiore destro il logo bianco di Atari si illumina quando il dispositivo è acceso e, per l’alimentazione, è sufficiente usare un adattatore USB di quelli per i telefoni cellulari o, perché no, collegare un cavo direttamente dalla TV, visto che ormai tutti i televisori offrono una porta di questo tipo. Il segnale transita per mezzo di una porta HDMI e, almeno per la release iniziale del software, lo fa a 720p, il che magari farà storcere il naso a qualcuno (ma perché, poi?) e almeno è compatibile con tutti i modelli usciti negli ultimi 20 anni. Non c’è un’uscita analogica, ma del resto il collegamento a un vecchio televisore non è certo lo scopo del prodotto.

Restare indifferenti al fascino dell’Atari 2600+ è davvero impossibile. È tutta plastica, ma l’effetto legno del frontalino anteriore è molto efficace, perfino al tatto

Sul lato anteriore della plancia troviamo quattro leve, due a destra e due a sinistra dello slot per le cartucce. Nell’ordine: l’interruttore d’accensione, il selettore del tipo di televisore (a colori o in bianco e nero), e due slider a molla chiamati Game Select e Game Reset. Sul retro invece trovano spazio un selettore per le proporzioni dello schermo (16:9 o 4:3), le due prese DB9 per i controller, due selettori indipendenti per la difficoltà e naturalmente la porta USB utilizzata per l’alimentazione o per l’aggiornamento del sistema.

“Ma davvero una volta le TV non avevano i colori? E come si vedevano i giochi?” “Così, mio caro figliuolo!”. Sì, potete simulare la monocromia, ma mancano le scanline.

Nella scatola troviamo anche il cavo di collegamento USB e una fedele riproduzione dell’iconico (ma terribilmente scomodo, per noi mancini) joystick CX40. Quando inseriamo una cartuccia nell’apposita feritoia, il contenuto della sua ROM viene ‘dumpata’, cioè trasformata in un file binario e copiata all’interno della console, ed è possibile accedervi solo inserendo nuovamente la stessa cartuccia. Non pensate, quindi, di ottenere dei giochi in prestito e poi averli sempre a disposizione, perché non sarà affatto così: l’Atari 2600+ riproduce l’esperienza originale, nel bene e nel male, in modo assolutamente fedele.

ATTENTO A COSA CHIEDI; POTRESTI ESSERE ESAUDITO

La primissima osservazione ironica che fanno tutti i detrattori delle mini-console è sempre la stessa: “Ci posso usare le mie cassette, le mie cartucce, i miei floppy?”, salvo poi comprarsela e usare i file binari su una scheda SD che è mille volte più comodo. È successo, regolarmente, tutte le volte che ne è uscita una nuova. Bene, l’Atari 2600+ soddisfa esattamente quel tipo di richiesta, e lo fa talmente tanto bene da rendere l’esperienza di gioco addirittura anacronistica. Il dispositivo non è compatibile con gli ultimi homebrew che necessitano di chip aggiuntivi, né tanto meno è possibile usare moderne interfacce che permettano di scegliere tra più ROM contenute su una memory card: avrebbero bisogno di un dialogo continuo tra cartuccia e console che, sull’Atari 2600+, semplicemente non avviene.

La console vista dal retro, con la cartuccia 10-in-1 inserita.

Atari ha svolto, e sta tuttora svolgendo, un lavoro di testing e di retro-ingegneria per assicurare, via via, la compatibilità con tutte le cartucce uscite sul mercato ma, vi renderete conto anche voi, con più di 500 titoli all’attivo, alcuni dei quali difficilmente reperibili dopo 30 anni, si tratta di un processo lento e arduo da portare a termine. Una compatibility list aggiornata si trova qui e la speranza, chiaramente, è che tutti quei giochi attualmente marcati come Untested (non controllati) un giorno diventino Passed (compatibili). Spiace sempre per quei pochi Fail, ma in fondo è qui che entra in gioco la flessibilità di un emulatore software: di solito basta un aggiornamento per migliorare la situazione. Quanto all’esperienza in sé, è proprio analoga all’originale. Perfino i joystick sono quelli di un tempo – anche se realizzati con le tecnologie e i materiali di oggi, meno resistenti. Volendo è possibile usare anche i joystick e i paddle originali dell’epoca, a patto chiaramente che abbiate giochi che li supportino.

DISTOPIA O UTOPIA?

Senza la possibilità di giocare agli homebrew più complessi e senza un lettore integrato di memory card con cui usare ROM scaricate direttamente da Internet, l’Atari 2600+ combatte la pirateria ma fa un brutto scherzo proprio a chi, realizzando software e interfacce moderne, ha contribuito attivamente a mantenere in vita il ricordo della console originale e a tramandarlo alle nuove generazioni. Il suo unico obiettivo, a meno che un aggiornamento del firmware (o l’uscita di un moderno Supercharger basato su memorie flash) non stravolga tutto in futuro, sembra far girare cartucce vecchie di 40 anni su televisori nuovi di zecca e cercare di venderne qualcuna nuova, a 30 euro cadauna. In pratica ci hanno ridato la console di un tempo, coi suoi 160×192 pixel e i suoi 128 colori (almeno per i giochi NTSC) nella speranza di vederci giocare e, perché no, comprare nuovamente, titoli gloriosi ma – perdonateci il termine – a dir poco antidiluviani. Del resto, se il meccanismo sta funzionando per gli Evercade, perché mai non dovrebbe funzionare anche con l’Atari 2600+? Mi permetto di avanzare qualche ipotesi.

Forse perché Blaze Inc si è concentrata principalmente sui giochi, indipendentemente dal sistema su cui giravano, proponendone succose compilation su cartuccia. O magari perché ogni console Evercade ha un menu di avvio ricchissimo, che pare quello di Netflix, mentre per cambiare gioco sulla cartuccia 10 Games-in-1 in dotazione al 2600+ occorre muovere degli switch con un cacciavite. O anche perché Blaze, ultimamente, propone console con giochi fantastici, scintillanti, usciti dalle sale giochi senza aver accusato i colpi del tempo, mentre qui si contano i pixel sullo schermo e sono sempre troppo pochi: non ci sono nemmeno le scanline o altri filtri per migliorare la situazione o, perché no, simulare almeno parzialmente la resa dei vecchi CRT. Insomma, va bene la nostalgia, va bene la crisi di mezza età del garçon ancien che giocava col VCS a 10 anni, va bene sognare, ma (almeno dal mio punto di vista) ci troviamo di fronte a una mini-console priva della maggiore attrattiva delle altre mini-console: la possibilità di provare cose nuove con maggiore facilità rispetto all’hardware originale.

Un prodotto tanto affascinante nell’aspetto quanto spartano nella realizzazione, a uso, consumo e digestione di un solo tipo di pubblico: il nostalgico che vuole recuperare i videogiochi del suo passato, ma soltanto a patto di averli custoditi con tanta cura, senza alcuna realistica possibilità di ammaliare qualcun altro. Probabilmente la nuova Atari ha intravisto la possibilità di rinverdire i fasti di quella antica, riproponendo la stessa formula a quattro decadi di distanza. Ma facciamo veramente fatica a credere che ci sia un pubblico sufficientemente vasto per ricreare un mercato, anche se di nicchia, con simili premesse.

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