Quello che The Last of Us si è lasciato alle spalle – Speciale

The Last of Us: Part I

PC PS5

Quello che The Last of Us si è lasciato alle spalle – Speciale

Dieci anni, due generazioni di videogiochi e un cambio di medium. Un verbo che prima porta Hollywood nei videogiochi e alla fine porta i videogiochi oltre Hollywood, nell’era dove il piccolo schermo conta più dell’IMAX. Non si può crescere senza lasciare qualcosa indietro, senza passare per Left Behind. Questa è la storia di come l’ha fatto Naughty Dogs, nel giorno in cui Ellie e Joel si ritrovano nell’edizione PC di The Last of Us Parte I.

Prova a pensare a quanto è cambiata la tua vita in dieci anni. A quello che hai perso, alle persone con cui non parli più e alle responsabilità che l’età che avanza assegna indiscriminatamente a tutti, quasi una flat tax sul crescere. A quello che hai guadagnato, alla fine degli studi leggiadri e a quelle sudate carte raccontate dalla Poesia italiana che diventano gli atti notarili di mutui, case, proprietà.

Dieci anni sono un’enormità di tempo, per un medium che corre veloce come il videogioco addirittura di più

Dieci anni sono un’enormità di tempo. Per un medium che corre veloce come il videogioco forse sono addirittura di più. Prova a pensare a quanto è cambiato il tuo modo di giocare in questi dieci anni: su PlayStation 3 e Xbox 360 – quella che nei libri di Storia del Videogioco è etichettata come settima generazione – tutto aveva i connotati del blockbuster, o quantomeno ci provava.

La serie HBO approfondisce e amplia. Una forma di rispetto creativa e mai didascalica.

Anche il semplice fatto di utilizzare l’etichetta “blockbuster” dice molto delle intenzioni che il videogioco aveva in quella generazione, della sua voglia di legittimarsi a livello industriale e culturale in modo quasi ossessivo, di come lo volesse fare andando a proporre un approccio molto simile a quello tipico della Settima Arte pur di potersi fregiare dello status di Ottava.

NEIL’S DECEPTION

The Last of Us nasce in questo contesto culturale. Più indietro ancora nasce quando la Naughty Dog post-Uncharted 2, per la prima volta nella sua storia, si divide in due team per poter lavorare a due giochi contemporaneamente. È quasi un obbligo, sia dal punto di vista industriale – perché sono anche gli anni dove il videogioco esce dal suo immaginario di artigianato in modo da poter crescere, assecondando la legge della domanda e dell’offerta – che su quello delle responsabilità. Perché Naughty Dog, dopo Uncharted 2, non è più la software house di Crash Bandicoot o di Jax and Daxter, ma è diventata lo studio di riferimento quando si parla di First Party PlayStation spodestando quella Santa Monica che, dopo God of War 3, è in evidente affanno.

Naughty Dog è lo zeitgeist di quegli anni, perfetta rappresentazione di un videogioco che vuole muovere guerra al Cinema sullo stesso terreno

Naughty Dog è lo zeitgeist di quegli anni, lo sviluppatore che guida la carica del videogioco contro il cinema, maestri dell’hardware e del software che sdoganano l’espressione “è come un film” quando sui nostri televisori girano le loro opere a trenta fotogrammi al secondo. E quindi la decisione di dividersi in due team per due progetti diversi: da una parte il sequel diretto de Il Covo Dei Ladri, dall’altra qualcosa di nuovo sotto la game direction di Bruce Straley, ma soprattutto la direzione creativa di Neil Druckmann, entrato in Naughty Dog come programmatore nel 2004 e finalmente arrivato a potersi giocare il suo personale match point come sceneggiatore oltre che come designer.

The Last of Us Part 1

Il mondo post-Cordyceps è un mondo brutale.

Druckmann sente quasi il bisogno di evadere da Uncharted, dalle sue atmosfere leggere e forse anche da quell’attitudine da Indiana Jones apocrifo che non si prende mai troppo sul serio. “Dissonanza ludonarrativa” dieci anni fa era ancora una parola che trovava voce e corpo nella saggistica, sicuramente non qualcosa che potesse penalizzare la res pubblica di un videogioco, premi e recensioni incluse (a proposito: ecco un nostro editoriale sul tema). Andava benissimo essere i primi a metter piede dentro una tomba persa da millenni e ritrovarci dentro frotte di nemici armati e molto poco interessati alla preservazione archeologica del posto, ma Druckmann vuole andare oltre. C’è questa idea che risale ai suoi anni dell’Università a Pittsburgh, dove per il volgere di strani eoni si è ritrovato a dover pitchare a George Romero in persona un gioco che prendeva ispirazione dal suo La Notte dei morti viventi e dall’onnipresente Ico. C’è anche quella vecchia puntata di quel documentario della BBC, Planet Earth, che parla di come questo fungo Cordyceps prendesse il controllo della mente degli insetti per costringerli a diffondere sé stesso. Del concept iniziale, alla fine, rimarrà poco più di qualche traccia.

The Last of Us nasce come incontro tra un documentario della BBC, Ico e George Romero. Finirà per non essere nessuna di queste tre cose

Il poliziotto che doveva essere il protagonista diventa Joel, la ragazzina che doveva scortare Ellie. La meccanica di gioco in cui il controllo passa dall’uomo alla ragazza per via dei problemi cardiaci del protagonista sparisce, nel Blu Ray consegnato sugli scaffali il 14 giugno 2013 di Ico alla fine resta soprattutto qualche idea, quel rapporto simbiotico e a tratti co-dipendente tra Joel e Ellie. Ci sono dei momenti in cui, per andare avanti, il giocatore ha bisogno di Ellie proprio da un punto di vista meccanico, per raggiungere una scala o passare in qualche passaggio angusto. Sono momenti che però funzionano a prescindere dalla gestualità richiesta davanti allo schermo affinché i due personaggi compiano delle azioni dietro, infatti anche la serie TV spesso si trova a riproporre queste trovate senza necessariamente perdere qualcosa a livello di linguaggio.

GRAMMATICHE SENZA CONTROLLER

Il rapporto tra Joel ed Ellie passa solo in minima parte dal gameplay. Realizzare un prodotto audiovisivo su Ico – spogliarlo della sua componente interattiva e della necessità di tenere premuto R1 per tenere Yorda per mano – stravolgerebbe l’opera prima di Fumito Ueda. The Last of Us se la gioca in modo fondamentalmente diverso, quasi non lasciando giocare questo rapporto se non attraverso quelli che sono a tutti gli effetti echi di Uncharted messi a schermo più che altro per questioni di resa tecnica (Parte I esce sui PC di oggi, ma il gioco originale doveva girare su PS3) che di messaggio. È il racconto, in-game ma soprattutto via cutscene, a rendere tangibile il legame tra i due personaggi a chi sta giocando. Da questo punto di vita The Last of Us non poteva che essere un perfetto candidato a una trasposizione televisiva: si perde il layer di interazione, ma il cuore dell’opera alla fine è sempre stato nel racconto. Si parla però comunque di due linguaggi diversi. È vero che – per esempio – i primi due episodi della serie, al di là delle ovvie differenze dovute alle variazioni delle premesse sul contagio, viaggiano in modo molto aderente a quanto si poteva vedere a schermo su PS3 e si può vedere in questi giorni su computer. Ma nella serialità televisiva ci si può permettere di pensare a degli episodi dove il punto di vista non è necessariamente quello del protagonista, dove è normale cambiare soggetto e anche giocare con le coordinate temporali in modo più fluido che nei videogiochi.

The Last of Us Part 1

Ellie è costretta a crescere più velocemente della sua storia.

L’arco di Bill e Frank incarna perfettamente queste possibilità: laddove nel The Last of Us gioco gli eventi erano già successi e se ne poteva venire a conoscenza dai messaggi lasciati in giro, nella serie TV i due personaggi vengono riscritti. Non sono vicende destinate a rimanere sullo sfondo e ridotte a poco più di log testuali, ma momenti in cui il Neil Druckmann di oggi interviene su quello di ieri lasciando che questo venga contaminato dall’impegno, anche politico, che l’autore ha assunto in modo più esplicito con Left Behind e Parte 2. Left Behind stesso in questa versione seriale ha molto meno l’aria di un DLC in un qualche modo opzionale, entra a far parte della storia così come viene raccontata in TV adattandone alcuni dei momenti (quello della sala giochi) nella forma ma non nella sostanza. Piuttosto che lasciare spazio all’immaginazione di Ellie era più facile dare un riferimento reale al pubblico della serie TV, che probabilmente conosce Mortal Kombat di fama anche se non ha mai videogiocato – è stato un caso dibattuto anche nel senato americano negli anni ‘90. Ma il significato di ciò che appare a schermo è il medesimo e prescinde dalla sua messa in scena, non perdendo nulla nella traduzione da gioco a serie.

Quello che The Last of Us “perde” diventando serie è il gameplay. E non l’avrei mai detto, si percepisce

Quello che The Last of Us (e chiaramente anche Parte 1) si lascia indietro approdando su HBO è soprattutto il gameplay. È uno di quei casi in cui, come vuole la saggezza popolare, non apprezzi quello che hai fin quando non lo perdi. Sì, The Last of Us è un gioco figlio del suo anno di uscita e rappresenta probabilmente il punto più alto di quel modo cinematografico di intendere il videogioco. E sì, la parte giocata era molto spesso meramente funzionale, c’era perché ci si aspettava ci fosse – citando questa volta John Carmack. Eppure nel suo essere funzionale aveva una funzione precisa: fungere da camera di decompressione. La serie tv non corre, racconta tutto quello che c’è da dire – a volte anche in modo molto meta-videoludico, per esempio scherzando sulle sezioni in acqua con Ellie costretta a stare su un pallet – ma a me che arrivo dal videogioco e ho ancora la sensazione tattile di Parte 1 sotto le dita mi è sembrata correre, a un certo punto. Ellie e Joel hanno finito per volersi bene ai miei occhi molto più velocemente che su PlayStation, molto più di quanto si possa vedere oggi su PC.

Quello che resta del mondo.

Mancano quelle sezioni in mezzo di un’ordinaria vita di tutti i giorni dopo un’apocalisse. Momenti inutili come tanti altri momenti inutili costellano le nostre vite fuori dagli schermi, che però finiscono per dare peso e sostanza alle 24 ore che compongono una giornata. Sono venuti meno i diversivi, quelle ore di esplorazione tutto sommato fine a sé stessa che però mi davano la possibilità di pensare a quello che stavo giocando e a cosa avevo visto. Bill e Frank nella serie HBO hanno un episodio dedicato e tornano in qualche dialogo più avanti. Giocando The Last of Us a loro invece ho pensato diverse volte. Ci ha pensato il “mio” Joel, perché Joel era la maschera che stavo impersonando. Questo non è un problema o un disvalore però, piuttosto il contrario. In una trasposizione vanno tenute presenti le regole della grammatica dei due medium, tanto di quello di partenza quanto di quello di destinazione. A tutti gli effetti si parla di due opere diverse, con finalità e linguaggi diversi. E forse è qui che Druckmann ritorna a Ico, perché il valore della parte giocata di The Last of Us Parte 1 diventa chiaro per sottrazione dopo aver visto la serie.

THE LAST OF US ESCAPE FROM THE PAST

E sempre per sottrazione diventa chiaro cosa si è lasciato alle spalle The Last of Us dopo la sua Parte 2, figlia del suo anno di uscita tanto quanto l’originale The Last of Us è la perfetta sineddoche della settima generazione. L’ottava generazione è stata quella dove il videogioco ha (ri)scoperto il suo linguaggio, ha iniziato a parlare attraverso il giocato laddove prima si veicolava l’emozione tramite filmati.

La cifra stilistica di Parte II è raccontare con il gameplay

La cifra stilistica di Parte II è quello che succede a Ellie subito dopo la fine dell’introduzione del gioco, quando è costretta a fare i conti con qualcosa sperava non succedesse mai e chi gioca lo percepisce attraverso quei controlli che non rispondono più a dovere, quel dover forzare la ragazza ormai donna ad andare avanti lasciandosi indietro qualcosa che non era ancora il momento di perdere. Parte 2 poi fa anche un lavoro credibile con l’IA nemica, dotando i PNG di nomi che vengono utilizzati nelle comunicazioni via radio e di rapporti tra di loro che non conosciamo ma possiamo percepire. I personaggi avversari sono più umani, e per quanto con Parte 1 si sia provato a fare qualcosa di simile per colmare quello che era forse il peccato più di gioventù dell’originale per PS3 non è la stessa cosa.

L’iconico momento della giraffa.

La stessa cosa avrebbe richiesto una riscrittura più pesante del gioco, un remake completo e non aderente 1:1 alla Naughty Dog di 10 anni fa. Avrebbe richiesto quello che la serie HBO si è potuta permettere in quanto opera derivata e non riproposizione con lo scopo di fungere da capsula del tempo per chi sceglie di riviverla dieci anni dopo, magari proprio per tornare a chi era nel giugno del 2013 ignorando per quattordici ore il tempo che è ineluttabilmente passato.

Il linguaggio sta cambiando ancora, in TV come nel medium che ha consacrato Naughty Dogs

Un’illusione, non così tanto diversa da quelle a cui Naughty Dog ci ha abituato in questi anni, che sono stati gli anni della loro definitiva maturità. Il linguaggio sta cambiando ancora, tanto in TV quanto nel medium che ha consacrato lo studio californiano al successo. E chissà come saranno le prossime stagioni, in casa HBO o come portabandiera dei PlayStation Studios.

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