Multiplayer sociale e darwinismo videoludico

Stando alle parole di Electronic Arts, i videogiochi single player sono morti nel 2017. Parole che siamo abituati a irridere, portando come esempio le decine di milioni di copie vendute dagli Elden Ring, dagli Assassin’s Creed, dalle grandi esclusive a giocatore singolo di PS4. Ma siamo sicuri che siano davvero esperienze single player?

multiplayer sociale

Ne L’origine della specie Charles Robert Darwin teorizza che gruppi di organismi di una stessa specie si evolvano per selezione naturale, facendo in modo che siano solo gli esemplari che presentano delle variazioni utili per la sopravvivenza a poter tramandare il loro patrimonio genetico. Cosa c’entra tutto questo con i videogiochi? Messe di fronte ad un predatore le prede non possono che appellarsi al darwinismo. Davanti ad una macchina omicida perfetta come quella della cultura dell’hype – che ci vuole sempre concentrati sulla prossima uscita togliendo spazio alle opere già sullo scaffale – la risposta del medium è stata provare a sviluppare delle difese. Eventi, DLC post-lancio, Season Pass, perfino l’arrivo su servizi in abbonamento a la Game Pass. Ma inevitabilmente non poteva essere abbastanza: sono variazioni che riguardano la formula commerciale, il marketing, non il vero patrimonio genetico del videogioco che è il Game Design. Siamo animali sociali, lo siamo da ben prima che nel IV secolo A. C. Aristotele coniasse quest’espressione. E allora che la risposta alla cultura dell’hype sia diventare esperienze comunitarie, anche quando si parla di titoli devoti al single player, è solo l’ineluttabile conseguenza del darwinismo applicato ai videogiochi.

UNA QUESTIONE DI LEGGENDE

Lo scorso 28 gennaio usciva Leggende Pokémon: Arceus. Un gioco di tante prime volte per la serie mainline. Per esempio Leggende è il primo capitolo a non uscire in doppia versione, rinunciando alla necessità di scambiare con un amico i mostri tascabili per completare il pokédex. È un titolo che in massima parte rinuncia al multiplayer, eliminando le lotte e addirittura le evoluzioni tramite scambio, che adesso possono avvenire direttamente in-game usando degli oggetti. Leggende Pokémon è il gioco Pokémon più single player del franchise: verrebbe da ipotizzare che al botteghino la cosa si vada a tradurre in un numero minore di copie vendute, vuoi anche solamente perché con una sola versione in commercio non c’è necessità di acquistarne due. Eppure Leggende nella prima settimana riesce a vendere più di quanto abbiano fatto i remake di Perla e Diamante di qualche mese prima e addirittura più di Scudo e Spada, i capitoli più venduti in assoluto del franchise dopo Rosso/Blu e Oro/Argento. Leggende Pokémon Arceus nel giro di una settimana diventa il gioco Pokémon venduto più velocemente su Switch.

vista la sua declinazione apparentemente più votata al single player, verrebbe da pensare che Leggende Pokémon: Arceus abbia venduto meno dei predecessori. Invece è vero il contrario

Non solo. Laddove la chiacchiera attorno ai precedenti capitoli (e in generale attorno al videogioco medio) si esaurisce nei primi giorni dopo il lancio, il capitolo dedicato al Dio della mitologia Pokémon rimane vivo ben oltre la solita finestra. Il perché è presto detto: Leggende Pokémon è un gioco single player solamente in senso stretto, ma da design si appella molto al passaparola e alla comunicazione tra utenti essendo un’esperienza molto meno guidata degli altri capitoli principali. In Leggende i pokémon sono creature pericolose con cui l’essere umano non ha ancora la familiarità cui siamo abituati, e il gameplay dell’esperienza restituisce pienamente questa sensazione. Si avverte la sensazione di pericolo andando in giro, perché anche quando si entra in possesso delle creature più potenti un mostro selvatico può mettere in difficoltà gli allenatori giocando con la superefficacia delle mosse, con la possibilità di lanciare più attacchi di seguito o attaccando a squadre. Davanti a queste difficoltà la reazione della community è quella di cementificarsi, e il ricorso al passaparola diventa d’obbligo. È un multiplayer diverso, sociale, che riguarda il dialogo attorno all’esperienza piuttosto che la fruizione dell’esperienza giocando nella stessa partita. Il ritrovo nelle community diventa un appuntamento liturgico, una messa officiata senza la necessità di sacerdoti. L’accento è sul condividere la propria esperienza, non sul viverla assieme. Ci si scambia consigli. Si avanzano teorie. Si discute la lore. Le stesse tappe attraverso cui sono già passati a loro tempo i Souls di From Software, che però prendono vita anche senza la possibilità di evocare un alleato. E non a caso l’ultimo figlio di From Software vede e rilancia, riuscendo a tenere banco ancora oggi a due mesi dal suo personale D-day.

LET ME SOLO HER

242 tentativi. L’incarnazione della definizione di follia così come l’ha resa pop Far Cry 3, fare e rifare la stessa cosa sperando in un risultato diverso. Solo che 242 tentativi dopo il risultato diverso finalmente arriva, e anche il boss opzionale unanimemente ritenuto il più difficile del gioco crolla sotto i colpi di Klein Tsuboi. Potrebbe finire qui, rimanere una delle tante storie di dedizione tributata ad un’opera come i videogiochi ne hanno viste e raccontate tante. E invece Klein decide di svestire i suoi panni e affrontare Malenia ancora e ancora, questa volta online, armato solo delle sue due katana e di un elmo a forma di vaso. Niente armatura, niente tonache, niente vesti. Soltanto una Uchigatana Fredda +25 e una Fiumi di Sangue +9. Let me solo her – questo l’alias scelto per compiere l’impresa – diventa immediatamente un fenomeno virale all’interno della community. Se ne parla sulle board e nei siti di settore, vengono postati meme, storie e fanart sui social. Viene sviluppata addirittura una mod (dietro paywall) che lo aggiunge tra gli NPC del gioco.

multiplayer sociale

Is this a JoJo reference?

È solo una delle tante storie che negli utili 62 giorni ci siamo raccontati attorno al fuoco di Elden Ring. Ci siamo chiesti il perché di tutti quei suggerimenti che recitavano “Forte, Notte” o “Prova Dito ma Buco”, salvo poi realizzare che si trattasse di battutacce che avevano senso solo in inglese. Anche i contenuti di gioco stessi hanno dato un sacco da parlare, consigli da scambiarsi in chat per superare quella o quell’altra subquest o banalmente considerazioni su vari Semidei da affrontare. Radahn per me è stata una battaglia costruita magistralmente come momento ma pessima da giocare, per tanta altra gente è stato un momento perfetto.

il successo di Elden Ring non può essere spiegato solo con i nomi di From Software e George R. R. Martin

È il potere dei videogiochi che decidono di non cercare il consenso universale, e forse proprio per questo alla fine riescono ad andare molto vicini a questo obiettivo che in apparenza non si erano nemmeno posti. Perché il successo – no, la persistenza – di Elden Ring non può essere spiegata limitandosi a leggere i nomi di From Software e di George R. R. Martin sulla copertina, deve esserci un motivo più profondo se c’è ancora così tanto interesse attorno ad un’esperienza ormai già più che digerita, se questa riesce ancora a generare storie che vanno oltre il design delle sue quest. Non può essere solo una questione di soldi e marketing, perché il denaro è utile quando l’hype lo devi costruire ma molto meno quando dall’hype ti devi difendere. E infatti non a caso il trucco riesce anche ad un’esperienza insospettabilmente piccola, in questo primo trimestre del 2022.

LIGHT SOULS

Andrew Shouldice è un Jedi che costruisce la sua spada laser nelle Ludum Dare, game session che sfidano i creativi a realizzare un videogioco più o meno intero nel giro di un weekend. È lo stesso ambiente da cui è emerso tra gli altri anche Inscryption di Daniel Mullins, la cui idea nasce come Sacrifices Must Be Made durante la Ludum Dare 43. Il primo gioco commerciale di Shouldice però non è propriamente un indie, perché l’idea di Tunic per qualche motivo riesce a convincere Finji, che si occupa della pubblicazione del gioco. Dico “per qualche motivo” perché a prima vista Tunic sembra il solito emulo di The Legend of Zelda, come tanti se ne sono visti in questi anni. Un gioco di genere, nulla di speciale o nulla che possa mai ambire a diventare un neoclassico. Solo che poi Tunic finalmente esce, e quando ci metti davvero le mani sopra sei costretto a chiedere scusa per aver solo potuto pensare a una cosa del genere.

Memo per il futuro: prima di pontificare su un videogioco bisogna giocarlo.

L’idea centrale di Tunic, quella che da sola sostiene il peso di tutto il dialogo sociale attorno all’esperienza, è quella del suo manuale. È in tutto e per tutto quel libretto che fino a qualche generazione fa era normalissimo trovare dentro la confezione del gioco, con storia, istruzioni, consigli e spazio per le note. Solo che è sparso per tutto il mondo di gioco ed è scritto in un linguaggio per lo più incomprensibile, di modo che il contenuto sia intuibile solo dalle occasionali parole lasciate in inglese o dai disegni sulle pagine. O parlandone con un amico, perché Tunic non ha bisogno di annunciare DLC gratuiti con le fatine per rimanere rilevante a livello di dibattito, basta questa semplice idea di design per costruire qualcosa di incredibilmente interessante da approcciare.

TUNIC È CRIPTICO, MA È PROPRIO QUESTO A RENDERE SPECIALE LA SUA ESPERIENZA

Hai trovato la spada? Hai capito come potenziare il tuo personaggio, come battere quel boss che picchia forte ma con la magia diventa molto più accessibile? Il segreto di Tunic sono i suoi segreti, quelli che tace al giocatore anche quando sono davanti ai suoi occhi fin dall’inizio della partita. Sono le ellissi narrative di Dark Souls che si ricongiungono col mistero da videogioco della prima ora che lungo il corso della storia del medium è andato perso, anche solo perché nell’era di Internet può un segreto in game rimanere tale? Tunic non è una cover di The legend of Zelda, è piuttosto qualcosa di quanto più vicino ci può essere nel 2022 all’esperienza in cui qualche bambino fortunato è stato catapultato il 21 febbraio dell’86 infilata quella cartuccia su Famicom.

È questo che ci riserva la nostra personale origine della specie, che ci ha sempre riservato? In un mondo dove ci sono sempre più predatori a caccia del nostro tempo libero, chi vuole avere la speranza di riempirsi lo stomaco deve riuscire a far parlare di sé. Vale anche fuori dai videogiochi, perché il crollo degli abbonamenti di Netflix alla fine è figlio anche di questa situazione, dell’incapacità di costruire un’altra serie-evento come lo è stata Squid Game per la scorsa stagione o più indietro ancora le varie Case di Carta e Stranger Things. È il motivo per cui un player come Disney per le sue serie ha rifiutato il modello binge watching e rilascia un episodio alla settimana, lasciando fermentare il dibattito. Ed è il motivo per cui, per quanto riguarda noi giocatori, il single player in senso stretto è destinato ad avere sempre meno spazio. Il level design del futuro sarà pensato per farci parlare dei videogiochi anche durante il playthrough, scambiandoci un segno di pace senza mai mettere davvero in pausa. E allora rendiamo grazie a Dio.

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