I videogiochi che hanno segnato un’epoca – Speciale

Solo su Steam escono ogni giorno dai 50 ai 60 videogiochi. La maggior parte di questi asseconda l’epoca in cui vive: è derivativa, segue le idee e gli stili di qualcun altro, le parole di un evangelista diventate canone su mandato popolare.




Solo una piccola percentuale di videogiochi è davvero in grado di segnare la sua epoca. Non basta – e a volte nemmeno serve – lo status di capolavoro per farlo. È una questione che riguarda l’influenza culturale, il numero di altre opere e altri creativi che decidono di farsi a immagine e somiglianza dell’originale, del numero di cloni che seguono una produzione, se vogliamo.

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The Legend of Zelda: Breath of the Wild è stato uno di quei giochi capace di sfiorare e in certi casi raggiungere il perfect score, celebrato come il miglior capitolo della serie assieme ad Ocarina of Time, per qualcuno andando anche oltre quello che Shigeru Miyamoto era stato in grado di fare con quella cartuccia datata 21 novembre 1998. Eppure dal 2017 ad oggi emuli di Breath of the Wild se ne sono visti relativamente pochi. Immortal: Phoenix Rising e Genshin Impact sembrano ben poca cosa rispetto alle decine di titoli che si sono in un modo o nell’altro rifatti a The Witcher 3, di fatto il modello egemone per tantissimo del videogioco single-player open world giocato dal 2015 ad oggi. Segnare un’epoca è una cosa diversa, ha più a che fare con la percezione del pubblico che con i premi e le accolade della critica, riguarda chi i videogiochi li fa e chi li gioca più che chi ha la pretesa di parlarne.

TO WIN THE GAME YOU MUST KILL ME, JOHN ROMERO

 Nel 1994 John Romero si unisce al Club 27, quel circolo di artisti che quel tiro di dadi su cui abbiamo costruito religioni intere ha deciso di portarci via troppo presto. Lo fa solo metaforicamente, decidendo di incarnare l’Icona del Peccato in DOOM II: Hell on Earth perché ormai in id Software è lui il boss finale. Meno di un anno prima DOOM aveva cambiato per sempre il mondo: un fenomeno di culto costato diversi punti di PIL perché era impossibile non inciampare in un ufficio dove ce ne fosse una copia installata di straforo, capace di dare vita ad un vero e proprio genere che prima di chiamarsi “first person shooter” era identificato come “Doom Clone”. L’impatto di DOOM sul videogioco è stato talmente tale che ad oggi, trent’anni dopo la sua uscita, è quasi impossibile non averlo giocato, perché anche se non si ha mai avuto il piacere di farne girare una versione per DOS o uno dei suoi tanti porting più o meno ufficiali l’influenza della creatura di Carmack e Romero è così radicata nello sparatutto che basta averne giocato uno per riceverne l’eucaristia.

L’impatto di DOOM è stato devastante anche per Romero stesso. Non è un caso che sia lui di fatto il boss finale di Hell on Earth, con tanto di sprite della sua testa su una picca nascosto dietro la Icon of Sin dai suoi colleghi. Non è un caso che trovato questo easter egg decida di nasconderne a sua volta un altro, registrando le dieci parole che fanno da titolo a questo paragrafo e inserendole al contrario – come avrebbe davvero fatto un membro del Club 27, d’altronde è così che si nascondono i messaggi nei brani rock, no? – come verso della sua testa. La situazione in id Software è tesa, Romero dopo l’uscita di DOOM sembra sempre più vittima del suo stesso personaggio, sempre più “il Chirurgo” che gioca dei Deathmatch con una precisione incredibile e sempre meno sviluppatore, designer, rivoluzionario del software. Sono i primi segni che porteranno alla rottura definitiva dopo l’uscita di Quake e a un gioco che c’era stato promesso avrebbe segnato di nuovo un’epoca ma invece ha fallito su tutti i fronti, quel Daikatana famoso più per quella pubblicità dove Romero affermava di volerci rendere le sue prostitute (non dicendo esattamente prostitute, però) che per l’esperienza di per sé.

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La vera icona del peccato.

Venticinque anni dopo i Doom Clone si chiamano sparatutto in prima persona. Le mappe sono diventate più lineari, l’azione più cinematografica, la trama un selling point – laddove l’altro John, Carmack, sosteneva che nel videogioco fosse alla stregua del porno, ci si aspetta che ci sia ma alla fine non è così importante. Eppure venticinque anni dopo ci sarà un altro gioco che non solo farà tornare la massa videogiocante a sparare, ma costringerà tutto il resto dell’industria a inseguire: con Modern Warfare II Infinity Ward non si limita a consolidare il successo commerciale di Call of Duty 4, ma dà vita ad uno dei due trend commerciali più forti della settima generazione di videogiochi. Molto del videogioco, per colpa o per merito di CoD, diventerà più adrenalinico, condizionando anche serie con una legacy ben più profonda di quella dello sparatutto Activision.

THE LAST OF CINEMAS

L’altro grosso trend commerciale della settima generazione era quello di andare in mimesi col Cinema. Una ricerca quasi spasmodica del riconoscimento come Ottava Arte attraverso gli stilemi della Settima, o forse più prosaicamente l’occasione di avvicinare al videogioco (che è un medium attivo) anche un pubblico più avvezzo alle forme di intrattenimento passive. C’è tantissimo videogioco dell’epoca che si rifà ad Hollywood, in particolare su PlayStation 3 – dove bisogna ammettere che nelle esclusive di casa non si sparava bene tanto quanto su Xbox 360 e PC. Banale a questo punto citare David Cage e Quantic Dream, arrivati al grande pubblico grazie a Heavy Rain (per poi riproporsi alla stessa audience con Beyond: Due Anime), il titolo che ha sdoganato il concetto di Interactive Drama. Ma l’esempio che incarna meglio lo zeitgeist di questo modo di intendere il videogioco rimane il primo The Last of Us. Quasi 40 milioni di copie vendute complessivamente dal franchise, con una remastered su PS4 e poi un Remake su PS5 trainate dalla serie tv realizzata da HBO che ne adatta il linguaggio senza snaturarlo. L’operazione è possibile proprio perché si parla di due dizionari molto simili, quasi che la parte giocata alla fine influisca poco su quella narrata e togliendola il risultato sia equivalente, confermando quella tendenza ad essere più “video” che “gioco” che nella stessa generazione avevano mostrato anche opere come Metal Gear Solid 4 o il ben più dimenticabile Asura’s Wrath (uscito anche su Xbox).

Leggermente tamarro.

Quasi a volersi ribellare a questa narrazione la settima generazione riesce ad essere anche la casa di un fenomeno agli antipodi di quanto detto per The Last of Us. Qualcosa che non mostra, ma racconta per ambienti, attraverso la descrizione delle armi e soprattutto picchiando forte il giocatore, punendolo anche più duramente del lecito quando sbaglia. Qualcosa che si ricollega alla prima ora del videogioco, riportando in auge cose che sembravano perse tra le nebbie dell’arcade e distanti nel tempo adesso che le epoche non si misurano più in bit ma in flops. Il fenomeno Dark Souls (preceduto dal più grezzo Demon’s Souls, sempre di From Software ma incapace di raggiungere certe vette di influenza culturale) è una riscoperta di tutto questo, capace di codificare a modo suo un nuovo genere e di dettare l’agenda anche per titoli che decideranno di tenersi alla larga dall’etichetta soulslike.

demon's souls recensione

Dopo l’esplosione di Dark Souls è molto più facile ritrovare alcuni concetti nel videogioco, dal parry fino ad un battle system più strategico e meno button smashing, da un certo apprezzamento per un’estetica più cupa fino ad una maggiore attenzione per l’ambiente, il dettaglio, la posizione di certi elementi a schermo che diventa parte della narrativa stessa. È il multiplayer sociale, l’idea che by design un videogioco vada giocato in più giocatori anche in modo asincrono, anche solo semplicemente scambiandosi informazioni e confidenze attorno a un falò nella vita reale (o su qualche forum) oppure sfruttando i messaggi che si possono lasciare sui server di gioco. Un’ombra lunga che esonda e finisce per trainare verso il successo un altro fenomeno culturale recente, quell’Hollow Knight che riporta il metroidvania – mai propriamente morto come genere, grazie al mondo indie – in un posto di primo piano all’interno del medium. Per bizzarro che suoni sì, alla fine se abbiamo salutato il ritorno di Metroid e di Prince of Persia è anche grazie all’influenza di Dark Souls, che saputa sfruttare da Team Cherry ha portato ad una seconda epoca d’oro per il platform votato all’esplorazione.

GRAN TURISMO NEI VIDEOGIOCHI

 Prima di tutto questo però c’è stata un’epoca dove in cima alla catena alimentare della cultura c’era l’automobile. L’epoca dei Senna e degli Shumacher, di Colin McRae e di tutti quei nomi che per amore delle quattro ruote hanno rischiato e a volte perso la vita. L’automotive tantissimi anni fa aveva un fascino quasi inesplicabile, al punto che anche il videogioco è costellato da giochi di corse capaci di segnare un’epoca. Facile a questo punto evocare l’amore ai limiti del liturgico di Polyphony Digital negli anni in cui Gran Turismo era la massima espressione dell’auto nel videoludo, ogni sgommata virtuale una lettera d’amore al motore a scoppio firmata tanto da noi giocatori quanto da Kazunori Yamauchi. Ma c’era appunto anche la la serie Colin McRae, che poi avrebbe abbandonato il nome del pilota nel 2011 con Dirt 3, come c’è stata parallelamente al debutto di Fast and Furious nelle sale e di Pimp My Ride su MTV l’era del tuning nel videogioco, fieramente rappresentata dai due Need For Speed Underground.

Era il 2005. Nel gioco c’era pure Josie Maran. Eri felice e non lo sapevi, direbbe qualche gen-z

Il tempo ha fatto quasi scomparire questo fenomeno, relegando i giochi di corse a una nicchia non più di certo egemone a livello culturale. L’attenzione del pubblico si è spostata su altro, e anche l’automotive in real life si è trovato a fare i conti con questo fenomeno mentre la popolazione videogiocante toglieva tuta e casco per indossare i panni di qualche altro personaggio tra quelli citati. O anche tra quelli non citati, perché per quanto fare epoca non sia cosa da tutti negli anni ci sono riusciti titoli a cui ai tempi delle sale giochi non si sarebbero date nemmeno le proverbiali 100 lire del valore nominale di un gettone. Chi avrebbe mai pensato al successo senza apparente senso di Vampire Survivors? A quello di Slay the Spire e dei suoi cloni, al fatto che il tie-in per PlayStation 2 del secondo Spider-Man di Raimi sarebbe diventato il modo in cui ci aspettiamo ancora oggi di giocare un videogioco del ragno?

Per segnare un’epoca non serve essere un capolavoro. Bastano un paio di idee e lo stesso tiro di dadi che ci toglie qualcosa quando reclama un nuovo membro per il club 27. Solo che a volte questo tiro di dadi restituisce, e ci compensa con il videogioco giusto alle giuste coordinate temporali per fare la storia. Non necessariamente meritandolo.

 

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